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"Il mondo si divide in tre categorie di persone: un piccolissimo numero che fanno produrre gli avvenimenti; un gruppo un po' più importante che veglia alla loro esecuzione e assiste al loro compimento, e infine una vasta maggioranza che giammai saprà ciò che in realtà è accaduto".

sabato 1 maggio 2021

Due teschi "alieni" scoperti in Russia, un'istituzione nazista segreta e la ricerca dell'origine dell'umanità

 In quella che sembra una scena di un film di Indiana Jones, i rapporti dei giornali russi "Komsomolskaya Pravda" e "Rossiyskaya Gazeta" indicano che una valigetta e due teschi simili ad alieni sono stati scoperti nelle montagne della regione caucasica di Adygeya. Tra la valigetta, i suoi cercatori hanno trovato due teschi appartenenti a una creatura sconosciuta. Ahnenerbe era probabilmente la società più segreta all'interno delle SS dedicata allo studio delle forze occulte e soprannaturali sulla Terra. Secondo i ricercatori, è probabile che i membri delle SS fossero interessati ai misteri degli antichi dolmen e alle elevate quantità di radioattività presenti nella regione nota come canyon Kishinski.Tuttavia, i ricercatori ritengono che sia anche possibile che stessero cercando il dorato Kuban Rada, perso da qualche parte nella regione durante la guerra civile russa (1917-1923). (Il Kuban Rada (russo: Кубанская Рада; ucraino: Кубанська Рада) era l'organizzazione suprema dei cosacchi Kuban, che rappresentava tutti i capi dei distretti.)Tra gli oggetti, i ricercatori hanno anche scoperto una mappa di fabbricazione tedesca del territorio di Adygeya che si ritiene sia stata creata nel 1941. Gli esperti sono rimasti sbalorditi dall'accuratezza e dalla completezza della mappa.Gli storici conoscono molti dettagli dell'operazione Wehrmacht Edelweiss che ha avuto luogo sulla vetta dell'Elbrus, la montagna più alta d'Europa, situata nella repubblica di Kabardino-Balkaria nel Caucaso russo. Tuttavia, quale fosse lo scopo esatto di questa misteriosa organizzazione nelle montagne di Adygea, rimane un mistero profondo, così come la connessione tra la misteriosa valigetta, il suo contenuto ei due teschi anomali che non hanno un aspetto umanoide.L'  Ahnenerbe  era un istituto nella Germania nazista con lo scopo di ricercare la storia archeologica e culturale della razza ariana. L'istituto ha condotto esperimenti e lanciato numerose spedizioni in tutto il mondo nel tentativo di dimostrare che le popolazioni mitologiche nordiche hanno governato il mondo in un lontano passato. Il nome  Ahnenerbe  significa "ereditato dagli antenati".





Gli  Ahnenerbe  volevano sapere tutto ciò che riguardava il misterioso e l'ignoto del nostro pianeta, fecero diverse spedizioni viaggiando in Tibet, Antartide e Caucaso e nutrirono un enorme interesse per il fenomeno UFO, alla ricerca del potere ultimo e assoluto.È ben noto al mondo che la Germania di Hitler era attivamente impegnata nello sviluppo di nuovi tipi di armi ritenute in grado di cambiare il corso della guerra. Questo è il motivo per cui oltre 300 specialisti di diversi settori hanno lavorato  nell'Ahnenerbe , tutte menti brillanti e istruite con una grande conoscenza scientifica.È interessante notare che solo pochi sanno che, anni prima dell'inizio della guerra, specialisti in strade di montagna di un'organizzazione di costruzione militare tedesca si offrirono di aiutare l'URSS a costruire una strada tra Pitsunda e Ritsa (dalla costa del Mar Nero in Abkhazia), come un mezzo di cooperazione internazionale.




Dopo aver completato il lavoro, gli specialisti tedeschi sono stati scoperti per essere morti misteriosamente, la loro auto è precipitata nella fessura in una curva. Fino ad oggi, i turisti affollano il lago Ritsa attraverso i tunnel costruiti dai tedeschi.



Acqua di vita russa

In seguito si è scoperto che la costruzione di questa strada strategica aveva ragioni molto misteriose. Si è scoperto che gli idrologi di Ahnenerbe hanno stabilito che la composizione dell'acqua prelevata da una sorgente situata in una grotta sotto il lago Ritsa era ideale per produrre plasma sanguigno umano. "L '" acqua viva "dall'Abkhazia è stata trasportata in contenitori d'argento prima sulla costa, poi in sottomarino fino al fondo di Costanza, e infine in aereo in Germania", spiega Bormotov, professore del dipartimento di economia e gestione di Maikop State Technological Università. C'erano anche piani per costruire tunnel per sottomarini, che portavano dal mare a Ritsa, ma questi piani furono interrotti dalla guerra.È noto che il 49 ° Corpo da Montagna della Wehrmacht, che ha scalato il Monte Elbrus, è rimasto nella regione di Adygeya. Nella valle del fiume Belaya vicino al villaggio cosacco di Dajóvskaya, sorgeva il reggimento delle SS della Westland e, tra i fiumi Pshish e Psheja, furono installati reggimenti di carri armati della Germania. Nell'autunno del 1942, l'aeroporto di Maikop fu visitato dal 3 ° squadrone del 14 ° gruppo di ricognizione, che disponeva di velivoli da ricognizione bimotore soprannominati FW-189, dotati dei più sofisticati strumenti spia e da molti considerati laboratori volanti segreti.


"Questo è stato più che sufficiente per proteggere le indagini sotto copertura che potrebbero essere state condotte dall'Ahnenerbe sulle montagne di Adygea", dice Bormotov. “Maikop era la città in cui la Wehrmacht aveva il suo quartier generale. Da lì fu organizzato il comando di tutta la campagna militare tedesca nel Caucaso.Nell'autunno del 1942, nelle montagne di Adygea, non c'era una linea difensiva militare definita, e ci sono rapporti di soldati che si aggiravano nelle profondità delle montagne. Non è chiaro il motivo per cui le truppe furono schierate sul monte Pshekish nell'agosto 1944 quando la linea del fronte si era già spostata molto a ovest. Cos'era che i nazisti non ebbero il tempo di finire sul monte Pshekish? Questi misteriosi movimenti possono essere spiegati e collegati alle indagini dei ricercatori di Ahnenerbe? " si chiede Bormotov.Molte persone presumono che i nazisti fossero interessati ai dolmen, le costruzioni preistoriche attribuite ai costruttori atlantidei situati nella regione, e "la porta di accesso ai mondi paralleli".



Ancora oggi si parla di eventi insoliti nella zona. Recentemente è stato pubblicato un articolo sulla stampa locale che parlava del ritrovamento di uno scheletro gigante di tre metri di altezza che apparteneva a una razza umana sconosciuta nel canyon di Borjomi.


I teschi degli dei

I media russi scrivono che i misteriosi teschi sono stati trovati in una grotta sul monte Bolshoi Tjach quasi due anni fa da un gruppo di esploratori guidati dall'etnografo Vladimir Melikov.Secondo Melikov, la creatura di uno dei teschi era diversa da qualsiasi cosa nota all'uomo e camminava su due gambe. Melikov afferma che tra le caratteristiche più misteriose dei teschi c'è l'assenza di volta cranica e mascelle. Le orbite sono insolitamente grandi con caratteristiche facciali che ricordano gli umani.Anche se confrontato con il teschio di un orso, è difficile pensare di non avere tra le mani i resti di una creatura aliena, ha detto Melikov.I paleontologi di Mosca non erano troppo entusiasti quando hanno ricevuto le fotografie dei misteriosi teschi, hanno semplicemente riconosciuto che i teschi sono diversi da qualsiasi cosa avessero mai visto, suggerendo che i teschi avrebbero potuto essere sommersi ed esposti alla sabbia per lunghi periodi di tempo, qualcosa ciò avrebbe potuto alterare la forma dei teschi, ma, se così fosse, come spiegare le "deformazioni" quasi identiche in entrambi i crani che sembrano seguire schemi simili?


Speculazioni o realtà? Gli antichi Anunnaki in Russia

Alcuni ricercatori si sono spinti fino in fondo e hanno stabilito collegamenti tra i misteriosi teschi e gli Antichi Anunnaki. Dopo aver guardato le immagini, molti suggeriscono che questi teschi misteriosi siano stati cercati dai ricercatori dell'Ahnenerbe poiché appartenevano ai visitatori delle Stelle, degli dei e dei creatori della razza umana, e i ricercatori dell'Ahnenerbe  sapevano esattamente cosa stavano cercando.

"Possiamo costruire tutti i tipi di versioni e congetture, ma la verità è che i resti trovati nelle montagne di Aguideya ti costringeranno a ripensare a tutto ciò che sai", ha detto Bormotov ai giornali russi.

In conclusione, possiamo dire che queste scoperte misteriose sono qualcosa che ti fa sicuramente chiedere cos'altro ci sia là fuori. Ti fa pensare ad altre istituzioni segrete che avevano idee e piani simili a quelli dell'Ahnenerbe . I teschi e gli oggetti scoperti in Russia rimarranno come alcune delle scoperte più misteriose fatte nell'ultimo decennio e la verità dietro di loro sembra molto più misteriosa di quanto possiamo immaginare.


Fonte:

Rossiyskaya Gazeta

Komsomolskaya Pravda

martedì 16 giugno 2020

NOSTRADAMUS

Michel Nostradamus ha sempre suscitato, al solo pronunciarne il nome, oscure ansie e paure, che sono quelle dell’ignoto. La maggior parte degli uomini preferisce vivere i propri giorni così come vengono, senza preoccuparsi, e anzi avendo timore del tempo futuro, quasi come struzzi con la testa nella sabbia. Gli eventi poi accadono improvvisi e inaspettati, determinando sorpresa, sconvolgimento e dolore. 

Coronavirus, c'è chi non ha dubbi: "Nostradamus aveva previsto tutto"


Tuttavia l’imminente alba del nuovo millennio ha fatto riscoprire a molti l’opera di Nostradamus e nel solo 1999 sono stati pubblicati o ristampati numerosi libri sul Veggente di Salon. Nell’esaminare le centinaia di opere di commento alle Centurie scritte nel corso dei secoli è facile constatare l’enorme disparità di interpretazioni, una constatazione che fa comprendere perché Nostradamus sia stato ritenuto un veggente ambiguo ed oscuro, nella cui opera poteva leggersi tutto e il contrario di tutto. Il motivo principale di questa ambiguità è il fatto che sino ad oggi nessuno è stato in grado di proporre per le Centurie una datazione accettabile, con la conseguenza che la stessa quartina veniva riferita a un evento già verificatosi che vi sembrava riconoscibile oppure a un non ben determinato tempo futuro. Da qui la confusione, le ambiguità e l’accusa spesso mossa a Nostradamus di essere un veggente di quanto già accaduto. Eppure il Veggente, sia nella parte in prosa rappresentata dalle lettere al figlio Cesare e ad Enrico di Francia, sia in alcuni versi, aveva indicato l’esistenza di alcune chiavi che avrebbero consentito di determinare la cronologia delle sue predizioni e soprattutto di fissare il tempo abbracciato dalle sue profezie. Ma quelle chiavi erano mascherate in modo tale da non farle intendere e a volte da non farne nemmeno immaginare l’esistenza. Perciò è nata l’esigenza di definire innanzitutto la cronologia dell’opera, cercando di individuare il tempo fino al quale si estendono le profezie. Solo in tal modo è infatti possibile inserire le quartine in un preciso contesto temporale e dare alle vicende del tempo futuro una collocazione determinata. L’esame delle due lettere ha fornito i primi importanti riferimenti: la lettera al figlio Cesare ha consentito di giungere a una prima determinazione del tempo in cui finiranno le profezie. La lettera a Enrico, invece – che celava un incredibile marchingegno, una sorta di gigantesco puzzle letterario-, una volta riordinata, ha permesso di indicare un tempo ancor più definito, grazie alla risoluzione dell’enigma biblico contenuto in due suoi passi. Infine un passo della lettera a cesare ha consentito di determinare giorno, mese ed anno della fine delle profezie: il 2 giugno del 2025. Nella lettera a Enrico vengono rilevati numerosi tranelli enigmistici, anagrammi, doppi sensi e crasi linguistiche frutto dell’impiego fatto dal Veggente del linguaggio verde, usato dagli alchimisti rinascimentali per non fare comprendere ai profani quanto intendevano esporre. Un ulteriore ausilio nella definizione della cronologia è giunto dalle sestine, opera dai più ritenuta spuria ma invece riferibile, sia pure indirettamente, a Nostradamus. Le sestine infatti, a differenza delle quartine, presentano numerose date mascherate inizianti con il sei (seicentosei, seicentosette, ecc..) e le date celate dietro queste cifre sono state tutte individuate grazie alla soluzione di un enigma contenuto in una quartina di apparente scarso significato. Grazie alle sestine è stato possibile fissare numerosi paletti temporali all’interno del periodo di tempo già determinato ed inserire tra un paletto e l’altro le quartine che parevano adattarsi agli eventi narrati nelle sestine datate. Infine i riferimenti astrologici, hanno consentito di fissare ulteriori paletti temporali e di disegnare così un quadro d’assieme, in grado di dare un’esposizione quasi storica del tempo futuro, anno per anno dal 1999 al 2 giugno del 2025, come se gli eventi si fossero già verificati. Messa alla prova delle congiunzioni astrali che datano gli eventi nelle quartine, la cronologia così individuata ha trovato piena conferma in tutte le effemeridi astrologiche contenute nelle quartine. E’ sicuramente possibile che la collocazione temporale di un singolo avvenimento non sia del tutto corretta, ma la cronologia complessiva è difficilmente obiettabile, ed eventuali errori nei particolari non inficiano il quadro d’assieme, che appare confermato da numerosi riscontri. L’intera opera di Nostradamus ruota intorno alla sua misteriosa cronologia, che lo porta a suddividere il tempo passato, presente e futuro in otto millenni, nel cui ambito si viene a snodare il dramma umano. Nell’ampio respiro di questo tempo si riferiscono le vicende, le guerre, i fatti e i personaggi, quasi che l’artista abbia voluto lasciare all’immaginazione del visitatore i contorni degli accadimenti rappresentati. La storia dell’umanità è scandita per lo più da eventi luttuosi e apocalittici: si ricordano le guerre, le battaglie, gli eccidi, le rivoluzioni mentre i periodi di pace, visti per lo più come parentesi tra i periodi di guerra, si dimenticano facilmente. L’opera di Nostradamus non si discosta da questo comune sentire: egli appare quasi come un cronista giunto dal passato a spiare gli accadimenti futuri che si soffermi presso le edicole dei giornali a leggere i titoli e gli avvenimenti, annotando quelli di maggior rilievo che sono per la maggior parte tristi e luttuosi. Il periodo storico in cui visse Nostradamus, la prima metà del ‘500, è connotato dall’oppressione della Chiesa Cattolica, che si manifestò soprattutto nella costituzione del Tribunale della Santa Inquisizione e nei processi per eresia o stregoneria, che il più delle volte si concludevano con la condanna al rogo del malcapitato. 

Nostradamus oltre che astrologo, fu anche alchimista, ma tenne accuratamente celati quegli studi, in quanto perfettamente consapevole del grave periodo che avrebbe corso se si fosse venuto a sapere di questa sua inclinazione. Dunque il contesto storico, politico-sociale e religioso del tempo non consentiva al Veggente di esprimersi liberamente, né di svelare quali fossero il suo vero sentire e le sue convinzioni religiose e filosofiche. La lettura e l’interpretazione dell’opera non possono sottrarsi alla consultazione di testi antecedenti ad essa, che Nostradamus non poteva che avere presente. Innanzitutto l’Antico ed il Nuovo Testamento e di questo l’Apocalisse di Giovanni. Poi le opere dei Padri della Chiesa, dei filosofi classici e dei mistici medievali e ancora i testi classici sull’Egitto e sulla sua storia, testi di astrologia e di alchimia e quant’altro costruiva il bagaglio di uno studioso dell’epoca. Solo con l’ausilio di tali elementi è possibile un serio approccio all’opera del Veggente e un’oggettiva e non fantasiosa interpretazione delle sue profezie. Molti studiosi si sono industriati nella ricerca di una chiave di lettura segreta delle Centurie ma questa chiave non esiste, come è dimostrato dall’assoluta incoerenza dei risultati: il Veggente si limitò a stendere quartine in ordine cronologico per poi scompaginarle senza alcun criterio logico, con la conseguenza che ogni quartina deve essere interpretata singolarmente e poi messa in relazione con altre per le quali si sia verificato un riferimento al medesimo periodo temporale. Leggere l’opera di Nostradamus costituisce un affascinante viaggio nel tempo del non ancora avvenuto, nella speranza di trovare in essa la certezza di un domani migliore per l’umanità.

HARRY HOUDINI

Esiste in America una notte particolare, la notte di Halloween, che si dice essere popolata di streghe, maghi, spiriti e ogni sorta di abitante del mondo dell’invisibile. In questa notte del 1926 si univa al gruppo degli spiriti quello di Erich Weiss, in arte Harry Houdini, il più grande illusionista di tutti i tempi. Era nato il 24 marzo del 1876 a Budapest, figlio del rabbino Mayer Samuel Weiss, ma per tutta la vita rifiutò i suoi natali ungheresi e a chi lo chiedeva rispondeva di essere nato in America, questa America che lo aveva visto muovere i primi passi nel mondo dell’illusionismo di cui avrebbe dovuto divenire re incontrastato. Una passione per la magia nata dalla lettura del libro “Memoires d’un prestidigitateur” di Robert Houdin, il cui cognome fu quasi integralmente utilizzato dal giovane Erich quale pseudonimo artistico (il nome Harry voleva invece ricordare un altro famoso prestidigitatore vissuto a cavallo fra il 1800 e il 1900: Harry Kellar). I luna parks, i baracconi e i circhi furono per anni teatro delle mal pagate esibizioni del “Grande Houdini” come amava farsi chiamare, certo che l’appellativo “grande” avrebbe potuto essere di maggior richiamo per il pubblico; egli asseriva infatti che un’adeguata propaganda si rendeva necessaria non solo per un prodotto ma anche per un artista, tanto che decise di investire i suoi ultimi risparmi in manifesti, dove venivano elogiate le sue fantomatiche tournèes europee, frutto della sua fervida immaginazione. 
Lo studio di Harry Houdini Archivi - Magic Escape Room Roma

Tutto questo, però, accompagnato dal suo primo colpo pubblicitario quando in una prigione di Chicago riuscì a liberarsi dalle manette impostegli dalla stessa polizia locale; ottenne risultati sorprendenti e il nome di Houdini cominciò a rimbalzare da un capo all’altro dell’America come sinonimo di sfida a qualsiasi mezzo di costrizione o appositamente costruito. Infatti, Harry invitava spesso il suo pubblico ad escogitare ogni nuovo tipo di legatura, catena o lucchetto allo scopo di imprigionarlo, ma puntualmente, di fronte agli occhi ammirati di grandi folle riusciva a liberarsi. Era il successo. Ogni teatro, ogni piazza, ogni salotto dove si esibiva Houdini (il grande era stato rimosso dai manifesti perché non serviva più, ormai tutti sapevano che lui era davvero “il più grande”) era gremito di pubblico. Con il successo, naturalmente venne la ricchezza, il suo cachet era di 7000 dollari per settimana. Fu allora che Houdini decise di intraprendere quella tournèe europea che fino ad allora aveva solo sognato. Si trattava, però, di ricominciare daccapo, dato che i carenti mezzi di comunicazione dell’epoca non erano riusciti a portare la sua fama tanto lontano. Non fu un problema per il giovane Harry che, giunto a Londra sfidò pubblicamente gli agenti di Scotland Yard ad imprigionarlo e, come sempre, si liberò in pochi secondi. La cosa ebbe più risonanza di quanto si aspettasse, infatti tutta la vecchia Inghilterra parlò del grande smacco subito da quella che da tempo veniva considerata la più efficiente forza di polizia del mondo. Non trascorse molto tempo che anche in Europa al nome di Houdini arridesse il successo. Durerà quattro anni la sua tournèe europea e culminerà con una sfida particolare lanciatagli dal giornale “London Mirror” entrato in possesso di uno speciale tipo di supermanette d’acciaio dalle quali, affermava il quotidiano, non era possibile liberarsi. Si trattava di un tipo molto particolare con sei differenti chiusure e nove tipi di sicure al quale un meccanico di Birmingham aveva lavorato per cinque anni. Accettò naturalmente la sfida e, alla presenza della polizia, autorità e di una notevole folla di curiosi si fa serrare i polsi con i poderosi attrezzi meccanici. Riuscirà a liberarsi in un’ora, tra lo sbigottimento della folla e gli applausi scroscianti. Il gusto della sfida al pericolo porta Houdini a studiare ogni giorno nuove diavolerie e con la realizzazione dell’evasione dalla pagoda della tortura cinese supera se stesso. Si tratta di un grosso contenitore di metallo con una parete di cristallo; la grande cassa è piena d’acqua e Houdini, ammanettato, incatenato e con i piedi saldamente imprigionati in una gogna, vi è calato a testa in giù, alla chiusura vengono applicati quattro lucchetti. A questo punto una tenda viene sollevata e parte un grande orologio contasecondi, intorno vi è grande agitazione; due uomini armati di ascia sono pronti ad intervenire, Bess, moglie e partner del mago, gira nervosamente intorno alla tenda, un minuto è già passato, un minuto e mezzo, due minuti! Fra il pubblico comincia a serpeggiare il dubbio che qualcosa non abbia funzionato. Le asce vengono sollevate, ma proprio in quell’istante Houdini, affaticato, ma sorridente, fa la sua apparizione. Ce l’ha fatta! Nuove idee stuzzicavano la fervida mente del mago. A creare lo spunto per qualcosa che ancora interessi le grandi folle sarà un fatto di costume sempre più dilagante: lo spiritismo. Houdini, realmente interessato a tutto quanto è occulto e dichiaratamente certo dell’esistenza di spiriti dell’invisibile, intraprende una gigantesca campagna contro i falsi medium, che sfruttando la credulità del popolo si arricchiscono alle sue spalle. Da tutto questo nasce un nuovo tipo di spettacolo estremamente gradito al pubblico: per la prima volta vengono svelati i trucchi, ma non si tratta di veri e propri giochi di prestigio, bensì di ingegnosi artifizi utilizzati dalla miriade di mistificatori che asseriscono di possedere doti paranormali. Houdini lancia pubbliche sfide ai più famosi medium dell’epoca che regolarmente smaschera aiutato anche da un suo grande amico, il famoso scrittore Sir Arthur Conan Doyle, ugualmente appassionato spiritista. Anche se pare che nel tempo si va a formare tra i due uomini, dopo un tentativo fallito da Lady Jane Doyle nel 1922, di contattare la madre di Houdini una rottura. Diviene velocemente molto spietato e spinto a credere che tutti i metodi sono solo contraffazioni, nei suoi spettacoli riproduce i calchi delle mani eteree che comparivano durante le sedute e l’ectoplasma lasciata dalle evanescenti presenze. La rottura tra i due uomini è approfondita breve tempo dopo quando Conan Doyle, e gli altri Spiritisti, cominciano ad affermare che la ricerca di Houdini sui medium sta semplicemente a coprire il fatto che è un medium egli stesso. Dichiarano che molte delle sue fughe straordinarie sono ottenute grazie alla "de-materializzazione" di Houdini dalle trappole. In effetti tutto questo nasconde il mal celato desiderio di trovare un vero medium che lo possa mettere in contatto con la madre, Cecilia Weiss, da poco scomparsa, alla quale Houdini era legato da affetto sconfinato. La cosa gli potrebbe inoltre dare la certezza della sopravvivenza dell’anima alla morte, questa morte che ha più volte sfidato con apparente coraggio, ma che teme più di quanto non voglia far credere. In una sola occasione la certezza di Houdini vacilla. È l’undici aprile 1923 la Sig.ra Mary Fairfield McVickers, un anno prima della sua morte, dispone che alle cinque del pomeriggio si presentino alla camera ardente, armati di macchina fotografica, dove si troverà la sua bara, assicurando una testimonianza della presenza del suo spirito. Houdini e il suo amico Larry Semon, produttore cinematografico, presero in prestito una macchina fotografica da un reporter e tutti e tre si presentarono all’appuntamento. I negativi utilizzati sono nuovi, Harry ha insistito nel comprarne di nuovi per fugare ogni dubbio. Dopo aver fotografato l’ambiente si recano al giornale per sviluppare i negativi e, viste le foto, non credono ai loro occhi. In una in particolare appare un fascio di luce perpendicolare alla bara che al momento dello scatto, Houdini ne è certo, non c’era e non è possibile che sia un difetto della lastra. È un’altra sfida: Houdini offre 1000 dollari a chi riuscirà a riprodurla, ma nessuno accetta. Il mistero più grande, dopo il caso della Sig. McVickers, riguarda la medium Margery (Mina Crandon), alla quale Harry Houdini dedica numerosi spettacoli, pur di smascherare i suoi trucchi. Nel 1924 Houdini, per mezzo del giornale Scientific American, offre 2500 dollari a chi riesce a dimostrare che le proprie doti psichiche sono genuine, gli investigatori sono certi che Margery sia autentica e sono pronti a consegnarle il denaro. Insieme ad alcuni esponenti dell’American Society Psychical Research assiste a numerose sedute medianiche alle quali, si dice, si materializzerebbe lo spirito guida di Margery, il fratello Walter. Houdini è incredibilmente scettico e fa in modo di scongiurare qualsiasi tentativo di intromissione “umana” alle sedute, finché Walter, attraverso la sorella, comincia ad inveire sul mago fino a farlo allontanare. Margery è stata talmente astuta da guadagnarsi la fiducia e l’appoggio di alcuni componenti delle sedute. Le materializzazioni dei calchi d’impronte portano gli investigatori a prendere le impronte agli ospiti della casa e trovando riscontri sugli invitati, sono pronti a dichiarare che Walter è solo una voce. Harry metterà su uno spettacolo nel quale svela tutti i trucchi utilizzati dalla medium, tra i quali proprio i calchi delle mani che si materializzavano dal nulla ricavati da un po’ di cera e acqua fredda, per convincere i suoi ospiti ad un intervento oscuro. Ma la morte arriva anche per Harry Houdini: è il 22 ottobre 1926, Houdini è seduto nel suo camerino, mentre un pittore sta disegnando un suo ritratto, entrano tre persone, sono studenti universitari, uno di loro gli rivolge alcune domande. Vogliono sapere se solo con la forza dei suoi addominali può ricevere pugni senza alcun dolore e lo colpisce senza dargli il tempo di mettere i muscoli in tensione. Dolorante si accascia al suolo, riuscirà a malapena a terminare lo spettacolo. Bess è decisa a chiamare un medico, ma la prossima tappa è a Detroit, quindi non c’è tempo. Nel camerino del teatro il medico diagnostica una peritonite, il pugno quindi ha messo in risalto una patologia latente, provocandogli la rottura dell’appendice, e ne ordina l’immediato trasporto in ospedale per essere operato, ma il mago non vuole. 
Si esibirà ugualmente, ma la cassa d’acqua dovrà essere sfasciata e lui portato d’urgenza in ospedale, dove viene operato, ma la febbre non accenna a diminuire e la situazione peggiora giorno dopo giorno, fino al tentativo disperato di un secondo intervento a seguito del quale Houdini muore: è l’una di notte del 31 ottobre 1926, la notte delle streghe! Il corpo del grande illusionista verrà seppellito nella bara d’acciaio che tante volte aveva utilizzato come attrezzo di scena e dalla quale riusciva puntualmente ad evadere. Sir Arthur Conan Doyle, al funerale, dirà sommessamente “Scommetto che non è più nella bara e che è già uscito”, ma questa volta non riuscirà ad evadere e nemmeno il suo spirito si manifesterà nonostante l’accordo stipulato con la moglie secondo il quale avrebbe tentato di dare sue notizie tramite veri medium e utilizzando un codice segreto che solo Bess conosceva; si dice sia una canzone, Rosabelle, che ha celebrato il loro incontro, seguita da alcune parole. Per dieci anni la vedova, nella notte di Halloween, alla presenza di numerosi conoscenti, scienziati e studiosi, tenterà il contatto senza riuscirvi. Un silenzio, questo di Houdini, che deluderà il mondo dello spiritismo scientifico, ma che creerà ancora più mistero al suo personaggio. Anche se c’è chi giura, Artur Ford, che ha davvero ricevuto quel messaggio da Houdini. 
Bess è sorpresa, commossa e consegna i 10.000 dollari in palio al medium che fosse stato in grado di farsi latore del messaggio. Alcuni colleghi di Ford, però, lo accusano di aver abilmente messo in scena la rivelazione, avendolo qualche anno prima Houdini scritto in un libro, e condannando Bess come complice, la costringono a ritirare la somma. Da quell’episodio non si è più levata voce del magico Harry Houdini, il più grande illusionista di tutti i tempi!

Raimondo di Sangro: Principe di San Severo


“Ammazzò sette cardinali e con le loro ossa costruì sette seggiole, mentre la pelle, opportunamente conciata, ricoprì i sedili…”


Raimondo di Sangro - Mito - Leggende popolari - Museo Cappella ...

Nonostante sia morto da almeno centotrent’anni, ogni volta che a Napoli si sente pronunciare il nome di Raimondo De Sangro, la gente si fa il segno della croce e i debiti scongiuri, quasi avesse a che fare con un demone di un’altra dimensione. Evidentemente, questo nobiluomo non ha lasciato ai suoi posteri un bel ricordo. Vediamo di capire perché. La famiglia dei De Sangro o Di Sangro era molto antica e vantava ascendenze illustri: secondo una tradizione araldica, la famiglia era di origine borgognona ed era imparentata con Carlo Magno attraverso il ramo di Oderisio, conte di Sangro nel 1093. A conferma di questo è lo stemma dei Di Sangro, che è lo stesso dei discendenti dei duchi di Borgogna, che fondevano le stirpi carolingia, longobarda e normanna. Legatissima al potente Ordine Benedettino, la Casa De Sangro vanterà, oltre ad abati ed altissimi prelati, anche i santi Oderisio, Bernardo e Rosalia. Legati da vincoli di parentela con la potente casata furono anche quattro pontefici: Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241), che istituì la famigerata Santa Inquisizione (contro l’ammissione della quale nel regno di Carlo di Borbone si battè proprio il lontano discendente Raimondo De Sangro), Paolo IV Carafa (1555-1559) e Benedetto XIII (1724-1730). Proprio attraverso S. Bernardo la Casa si legò poi all’Ordine dei Cavalieri del Tempio, i Templari. Oltre ai titoli di Principi di Sansevero (un titolo che ha come primo rappresentante, nel 1587, Gianfrancesco “Cecco” De Sangro) e duchi di Torremaggiore, la famiglia contava una lista lunghissima di titoli: Principe di Castelfranco, Principe di Fondi, duca di Martina e molti altri. Raimondo nacque il 30 gennaio del 1710, terzo di tre fratelli, da Antonio De Sangro e Cecilia Caietani d’Aragona. La famiglia, però, conservò la propria unità per brevissimo tempo: la madre, infatti, morì quando il bambino aveva soltanto un anno ed anche i primi due fratelli, Paolo e Francesco, morirono in tenera età. Il padre Antonio, addolorato per la scomparsa della consorte, dopo una vita alquanto dissoluta rinunciò al titolo nobiliare, affidò il piccolo Raimondo al nonno Paolo, sesto Principe di Sansevero, e si ritirò in clausura. All’età di dieci anni, fu inviato a Roma in un seminario gesuitico per essere educato. Alla morte del nonno, alla giovane età di 16 anni, Raimondo ereditò il titolo che era stato del padre e divenne Principe di Sansevero. Quattro anni dopo, a vent’anni, con un notevole bagaglio culturale, frutto della sua preparazione enciclopedica di stampo gesuitico, il giovane riuscì finalmente a tornare nel palazzo dei suoi avi: il Palazzo Ducale Sangro, ancora esistente in piazza S. Domenico Maggiore al numero 9, a Napoli. Il letterato e politico napoletano Antonio Genovesi, nella sua Autobiografia, lo descrive come “di corta statura, di gran capo, di bello e giovanile aspetto; filosofo di spirito, molto dedito alle meccaniche; di amabilissimo e dolcissimo costume: studioso e ritirato; amante le conversazioni d’uomini di lettere. Se egli non avesse il difetto di avere troppa fantasia, per cui è portato a vedere cose poco verosimili, potrebbe passare per uno de’ perfetti filosofi”. Intanto, il 10 maggio 1734 il diciassettenne Re Carlo III di Borbone, figlio di Filioppo V di Spagna, entrò trionfante a Napoli per prendere possesso del Regno delle due Sicilie. Nonostante la giovane età e l’apparente inesperienza, il sovrano sapeva di doversi creare una corte formata da persone fidate allo scopo di familiarizzare con il regno che si era appena conquistato. Così, subito dopo le sue nozze con Amalia Walburga di Polonia, istituì l’Ordine cavalleresco di San Gennaro, del quale fu primo Gran Maestro, al quale sarebbero appartenuti solo i sessanta membri della più antica nobiltà, scelti uno per uno dal re in persona. Il Principe di San Severo, naturalmente, fu uno dei primi ad essere chiamato. Per ringraziarlo dell’onore concesso, poiché il sovrano amava la caccia, Raimondo gli fece fabbricare dei mantelli di un tessuto impermeabile di sua invenzione: il sovrano, ovviamente, ne restò entusiasta. Il Principe De Sangro ricevette gli elogi e manifestazioni di stima in molte altre occasioni. Nel 1744, per esempio, il Principe, in qualità di colonnello del reggimento di Capitanata, liberò, alla testa delle sue truppe, la città di Velletri, che era stata occupata dall’esercito del generale austriaco Lobkowitz. Sempre per restare nel campo militare, a lui si devono le invenzioni di uno speciale cannone in lega di ferro (allora la maggior parte delle armi era di bronzo) e di un fucile a retrocarica che, di fatto, anticipò l’invenzione del Lefaucheux, l’ideatore riconosciuto della nuova arma. La tecnica e la tecnologia, però, non erano i suoi soli interessi. Nonostante l’insegnamento religioso che aveva ricevuto dei gesuiti, ben presto il giovane nobile napoletano entrò a far parte della Confraternita segreta dei Rosacroce, dove venne iniziato ad antichi riti alchemici. Da quel momento, il Principe cambiò radicalmente la propria vita dedicando tutto il suo tempo all’alchimia. Alambicchi, forni e provette riempirono così lo scantinato del suo palazzo e di notte non era raro vedere strani fumi colorati e sentire odori pestilenziali fuoriuscire dalle finestre sbarrate che davano sulla strada. Fu in quel periodo che i napoletani iniziarono a chiamarlo “stregone”.


Raimondo De Sangro, però, aveva anche un altro hobby: il bel canto. Il Principe, infatti, si dilettava a girare per i suoi vasti possedimenti in cerca di fanciulli dalla bella voce, che di soli trovava nei cori parrocchiali. Allora li “comprava” dai genitori, li faceva castrare dal suo medico di fiducia, il palermitano Giuseppe Salerno, e poi li rinchiudeva nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, a Napoli, dove i giovani, poveri castrati venivano educati per la carriera di soprani. L’aspetto che ci interessa di questa “attività” di Raimondo De Sangro non è soltanto quello meramente canoro: il Principe, infatti, nei castrati non vedeva soltanto dei cantanti ma anche l’avvenuta creazione di quella perfezione che i Rosacroce identificavano nell’”annullamento del dualismo della separazione, nel ritorno all’androgino primordiale”. Erano, per farla breve, il frutto di un’operazione filosofico-morale. Questo, naturalmente, non fu l’unico “campo” entro il quale il Principe versò le sue conoscenze ed il suo talento. Il prodotto più importante della sua opera nel campo dello scibile umano che non si impara sui libri di scuola è la famosa Cappella di Sansevero, la cappella di famiglia, decorata con statue ed altre opere realizzate, in parte, dallo stesso Principe. Ma di questo parleremo in seguito. Sempre versato nelle sue pratiche di alchimista e stregone, a partire dal 1750 anche Napoli cominciò ad avere una propria loggia massonica. Raimondo, naturalmente, decise di farne parte. Visto il prestigio di cui godeva, i suoi confratelli lo nominarono immediatamente Gran Maestro di tutto il Regno delle due Sicilie. La suggestione occultistica e alchimistica introdotta dal filone scozzese nella struttura razionalistica della massoneria di tipo inglese, faceva molta presa sulla nobiltà e sulla borghesia. E il Principe seppe sfruttarla tanto bene che ben presto nella sola Napoli si contarono un migliaio di “fratelli” suddivisi in diverse logge. Le diverse logge furono da lui unificate sotto l’unico indirizzo Scozzese. Nel Settecento le logge prendevano il nome delle taverne dove i “muratori” si incontravano per discutere di filosofia, di essoterismo, di politica, tutto nel rispetto dell’uguaglianza e del libero pensiero. Discussioni che vertevano su queste tematiche, naturalmente, finirono per impensierire il Santo Uffizio, il tribunale dell’Inquisizione, che da tempo cercava di aprire una “sede” nel Regno delle due Sicilie. Sfruttando, dunque, queste “pericolose logge massoniche”, papa Benedetto XIV il 15 gennaio 1751 comunicò all’ambasciatore di Carlo III di essere gravemente preoccupato per il diffondersi della massoneria nel Regno e negli stessi ambienti di corte. Anche il re Borbone si era dato da fare per saperne di più su “un’unione senza l’intelligenza ed approvazione del Sovrano”. Oltre a questi motivi politici, ve ne erano altri, di carattere più religioso: proprio in quell’anno il miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro non si era compiuto e il popolo, aizzato da un certo padre Pepe, aveva dato vita ad un vero e proprio movimento popolare contro i massoni, considerati i responsabili del mancato prodigio. Alla luce di questo, il 28 maggio 1751 Benedetto XIV emanò la bolla Providas Romanorum Pontificum, che confermava la scomunica alla massoneria già espressa tredici anni prima dal suo predecessore, Clemente XII. La vittima più illustre di tutti questi fatti fu, naturalmente, il Principe di San Severo, il quale, però, presentendo la tempesta che si stava per scatenare, aveva agito in anticipo. Il 26 dicembre 1750, infatti, Raimondo si era presentato al re e gli aveva consegnato la lista dei nomi degli affiliati alla sua loggia massonica, insieme con tutti i documenti relativi alle logge presenti nel Regno. In seguito, il 2 luglio 1751, Carlo III pubblicò l’editto contro i “liberi muratori”. Il primo agosto dello stesso anno, il Principe scrisse al Papa abiurando la sua fede massonica e mettendosi sotto la sua protezione. Tradendo il segreto massonico, il Principe salvò la propria testa e la propria posizione sociale: il re, infatti, se avesse voluto fare veramente “giustizia” e rispettare le disposizioni papali, avrebbe dovuto mettere in carcere metà della sua corte. Al contrario, il sovrano si limitò a impartire una “solenne ammonizione” a tutti i massoni napoletani. Cacciato ed odiato dalla sua antica fratellanza e dagli stessi amici di un tempo, il Principe tornò a occuparsi, per gli ultimi vent’anni della sua vita, dell’alchimia e della realizzazione della sua Cappella. Morì la sera del 22 marzo 1771 “per malore cagionatogli dai suoi meccanici esperimenti”, leggiamo nella Autobiografia di Genovesi. Probabilmente aveva inalato o ingerito qualche sostanza tossica durante le sue lunghe notti nel laboratorio. Questa è la versione “ufficiale”. Vi è, poi, la versione mitica. Secondo una leggenda napoletana, il Principe De Sangro, durante i suoi interminabili esperimenti alchemici, avrebbe scoperto un elisir prodigioso, capace di ridare vita ai cadaveri. Volendolo sperimentare su sé stesso, diede ordine ad un suo servo, di cui si fidava ciecamente, di tagliare il suo corpo a pezzi e di collocarli in un baule, al cui interno si sarebbe dovuto svolgere il procedimento di rinascita, con metalli nobili opportunamente dosati. Alcuni parenti, però, incuriositi da quello strano contenitore entro il quale pensavano forse di trovare oggetti preziosi, vincendo le resistenze del servo, aprirono il baule prima che si completasse l’opera di ricomposizione. Tra il terrore dei presenti, il corpo del principe venne fuori con gli organi ancora soltanto parzialmente collegati tra loro: l’elisir non aveva completato l’opera di ricostruzione. Rapidamente, dopo un urlo di dolore sovraumano, quella larva di corpo si disfece e i vari pezzi ricaddero nel baule. La leggenda di Raimondo De Sangro, però, non finisce qui. Nel 1790, di fronte al tribunale romano dell’Inquisizione, il conte Cagliostro, già membro della confraternita dei Rosacroce, affermò che tutte le sue conoscenze alchemiche gli furono insegnate a Napoli da “un principe molto amante della chimica”. Quale sia il nome di questo principe, non ci è dato saperlo, visto che i verbali del processo sono tenuti nel più stretto riserbo da parte della Reverenda Camera Apostolica. Comunque sia, i giudici non vollero credere a Cagliostro e lo condannarono all’internamento a vita nella rocca di San Leo. A quanto pare, dunque, il Principe Raimondo De Sangro fu il maestro del Conte di Cagliostro. LA CAPPELLA SANSEVERO DEI SANGRO Delle varie attività di Raimondo De Sangro si è detto tanto. Fu valente soldato: abbiamo parlato della sua conquista della città di Velletri; oltre a questo, redasse un trattato militare sull’impiego della fanteria che gli procurò le lodi di Federico II di Prussia. Fu scienziato pratico: inventò un nuovo tipo di archibugio ed un sistema che permetteva di sparare un colpo ogni quattro secondi; progettò una macchina tipografica per la stampa contemporanea di più colori; studiò un nuovo modo per filare la seta; mise a punto una carrozza marina; costruì una macchina idraulica capace di far salire l’acqua a qualunque altezza; ideò una carrozza con cavalli di legno che può camminare per terra e per mare, grazie ad una particolare macchina collocata al suo interno; mise a punto una “carta ignifuga”, con un lato di lana ed uno di seta. Fu filologo: portò a termine uno studio accuratissimo sull’alfabeto “cromatico” dei peruviani; parlava correntemente tutte le lingue europee, l’Arabo e l’Ebraico. Fu, naturalmente, chimico: produsse reagenti che indurivano sostanze molli; ideò alcuni sistemi per colorare il marmo bianco, dandogli un incredibile effetto e facendolo sembrare una pietra preziosa; studiò anche il processo inverso, riuscendo a decolorare i lapislazzuli; inventò procedimenti che rendevano “a freddo” plastici il ferro e altri metalli. Fu astronomo: sul ponte che collegava il suo palazzo alla cappella, andato distrutto nel 1889, collocò un orologio animato a forma di drago, dotato di un particolare impianto di carillon a campane, che indicava ore, minuti, giorni della settimana, nomi dei mesi e fasi lunari. Oltre a tutto questo, c’è chi gli attribuisce, con 150 anni d’anticipo sui coniugi Curie, la scoperta della radioattività naturale. Tale scoperta sarebbe contenuta in una lettera, che è stata sottoposta a perizia calligrafica e ritenuta autentica, datata 14 novembre 1763 ed indirizzata al barone H. Theodor Tschudy (cadetto del reggimento di Svizzeri al servizio del Re di Napoli ed esponente della Massoneria), grande amico di Raimondo. In questo testo vi sono dei passaggi scritti attraverso un codice a traslitterazione di stampo Rosacruciano: in esso il Principe parla di un “raggio-attivo” proveniente da un minerale, la “pechbenda”. Tale minerale, dice il Principe, aveva un effetto mortale sui viventi, come provato dalla sperimentazione sulle farfalle e si poteva “schermare” unicamente con il piombo (“Saturno). Ecco uno stralcio della lettera: Allorquando ebbi incontro con Supremo Fr. S. Germain, per Gabalì a lui mostrai la scoperta di quelle sostanze (che sapete) cristalline luminescenti al buio di color pece e d’olive (ch’ebbi in gentile dono da S. M. di Prussina) ch’io purgai da piombo, silicio, rame e varie impurità. Le quali subirono in crogiolo concentrato nei vari cammini alchemici. Esse procurarono la morte di farfalle chiuse in ampolle con coverchi forati. Infrapponendo lastra di Piombo tra ampolle e sostanze, le farfalle non morirono. Saturno bloccava raggio e affluvio mortali. Il fenomeno è al pari di raggio-attivo, simile a quello osservasi nel Sole. Il “manifesto” di tutte queste eccezionali capacità, però, è rappresentato dalla Cappella dei Sansevero dei Sangro, la “Santa Maria della Pietà dei Sangro”, ovvero “La Pietatella”.
Cappella Sansevero - Wikipedia

Fu costruita come cappella sepolcrale di quell’illustre famiglia da Giovanni Francesco nel 1590, ma quasi tutto ciò che vediamo oggi risale al rifacimento del figlio Alessandro (1631) e soprattutto ai restauri e alle decorazioni del famoso pronipote Raimondo (1744-1766). Un cavalcavia l’univa alla dimora di famiglia: ma, tanto per rientrare nei ranghi del mistero che aleggia intorno a cappella e famiglia, questo crollò, senza una causa apparente, nel 1889. La cappella è un rettangolo abbastanza vasto: più che una cappella, si tratta di una chiesa, in realtà, con un presbiterio nel fondo. La struttura è semplice e armoniosa, la decorazione è di una ricchezza travolgente, sia per i fastosissimi affreschi della volta, di Francesco Maria Russo, realizzati con colori procurati dallo stesso Raimondo, che conservano un’incredibile luce, sia per l’apparato di marmi, stucchi, oro che la rivestono. Le decorazioni furono realizzate da artisti come Queirolo, Corradini, Sammartino, Celebrano, Persico, F. M. Russo e C. Amalfi. Questi artisti, però, non idearono le opere in essa contenute, ma si limitarono ad eseguire la particolare iconografia ideata dal principe, che fornì anche marmi e colori “alchemici”. Scrive Gennaro Aspreno Galante nel 1872: “Egli costruì il cornicione ed i capitelli dei pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla”. Le bellissime sculture della Cappella Sansevero, che ornano i sepolcri degli antenati, soprattutto dei genitori del Principe, sono perfette espressioni di una simbologia massonica-templare-rosacrociana di tale pregnanza ed impatto visivo che lasciano, anche nel visitatore profano, l’impronta indelebile di un “messaggio” che, seppur non recepisce, si “avverte” con forza. Tutte le opere scultoree sono di grande bellezza ma le tre realizzazioni che hanno dato fama storica alla Cappella sono “La Pudicizia”, “Il Disinganno” ed il “Cristo Velato”. Vediamo di analizzarle.

La pudicizia


La Pudicizia è il nome improprio dato al monumento funebre di Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, madre di don Raimondo, morta in giovane età (morte simboleggiata dalla lapide spezzata); il Corradini, per esprimere il concetto voluto dal principe della “pudicizia velata”, scolpì una bellissima donna nuda coperta da un velo trasparente che la rende del tutto “impudica” per la generosità delle forme opulente che giocano con le pieghe del leggerissimo tessuto, dando l’impressione “tattile” di un vero velo poggiato. Questo artificio scultoreo, già usato dai greci della classicità per le veneri e per le vittorie alate, piaceva molto a Raimondo per l’insito significato del “velare” e “svelare”, caro agli iniziati delle scienze occulte ed ermetiche. Sarà usato, infatti, anche nel prodigioso “Cristo” del Sammartino. L’opera fu terminata nel 1751 e sulla base presenta un “Noli me tangere”, in bassorilievo, che ripropone sempre la tematica del Pudore.

Il Disinganno
Il secondo monumento funebre che analizzeremo, “Il Disinganno”, è quello di Antonio de Sangro, padre del principe, morto nel 1757, che, come detto, sconvolto dal grande dolore per la prematura morte della moglie, si abbandonò ad una vita errabonda ed inquieta della quale scoperto “l’inganno” si ritirò a vita monastica abbandonando le cose del mondo ed il figlioletto Raimondo al padre Paolo. Francesco Queirolo, sempre su suggerimento di don Raimondo, rappresentò un uomo (don Antonio) che si libera di una rete che lo avviluppa, lavorando, si dice, in un solo blocco marmoreo, con una perizia da orafo nell’estrema difficoltà di realizzare la rete marmorea avviluppata alla figura interna. Un genietto alato, che porta sul capo una coroncina “fiammeggiante” e che poggia su di un globo ed un libro, simboleggia l’ingegno “disingannato” che aiuta l’uomo a districarsi dalla schiavitù della rete viziosa. Il bassorilievo della base Cristo che ridona la vista al cieco riconferma il concetto della ritrovata verità.

Il Cristo velato


Il Cristo Velato poi si può ritenere l’opera sintesi di tutta la cappella. Ha sempre colpito l’immaginazione dei visitatori con la forza di una suggestione che non subisce variazioni da secoli. Il principe di Sansevero aveva commissionato il grande “Cristo Morto” con i simboli della Passione (martello, chiodi, tenaglia) al Corradini, ma essendo morto nel 1752, il suo bozzetto di terracotta, oggi al museo di S. Martino, fu splendidamente realizzato in marmo dal giovane scultore napoletano Giuseppe Sammartino, che cominciò così la sua luminosa carriera proprio con quest’opera, del 1753. Ciò che colpisce maggiormente di quest’opera è l’incredibile qualità del velo, così realistico da sembrare di tessuto anziché di marmo. Il modo in cui questo sia stato realizzato rimane un mistero, visto che molti scultori moderni, pur con le attuali conoscenze tecniche, non saprebbero riprodurlo con tale perfezione. Alcuni studiosi sostengono che i veli siano stati ottenuti “cristallizzando una soluzione basica di idrato di calcio o calce spenta” . Il processo sarebbe stato il seguente: la statua veniva posta in una vasca e ricoperta da un velo, o da una rete, bagnati; su questi veniva versato latte di calce diluito e sul liquido veniva spruzzato ossido di carbonio proveniente da un forno a carbone. In questo modo si otterrebbe una precipitazione di carbonato di calcio, e cioè marmo, che si unirebbe al resto della statua. Finora, però, nessuno ha dimostrato con i fatti che questa teoria sia quella giusta. Ma durante l’ultima Guerra Mondiale, un milite tedesco, volendo dimostrare l’assurdità dei fatti, spaccò con il calcio del suo fucile una parte del “Cristo Velato”, mostrando che al suo interno non vi è altro che marmo. La verità su questa statua, però, non è ancora stata pronunciata. Nell’Archivio Notarile di Napoli è stato rinvenuto il contratto tra il Principe e Sammartino: in questo contratto egli si impegna ad eseguire l’opera di una “statua raffigurante Nostro Signore Morto al Naturale da porre situata nella cappella Gentilizia del Principe, cioè un Cristo Velato steso sopra un materasso che sta sopra un panneggio e appoggia la testa su due cuscini, apprè del medesimo vi stanno scolpiti una Corona di spine tre chiodi e una tenaglia”. Il Principe si impegnava a procurare il marmo e realizzare una “Sindone, una tela tessuta la quale dovrà essere depositata sovra la scultura, dopo che il Principe l’haverà lavorata secondo sua propria creazione; e cioè una deposizione di strato minutioso di marmo composito in grana finissima sovrapposta al telo. Il quale strato di marmo dell’idea del sig. Principe, farà apparire per la sua finezza il sembiante di Nostro Signore dinotante come fosse scolpito di tutto con la statua”. Il Sammartino si impegnava, inoltre, a ripulire tale “Sindone” per renderla un tutt’uno con la statua stessa e a non svelare a nessuno la “maniera escogitata dal Principe per la Sindone ricoorente la statua”. Più avanti, sulla destra, dopo un arco, troviamo poi la lapide tombale dello stesso Principe. Si tratta di una grande lastra di marmo interamente ricoperta da una scritta in latino, anche questa opera di Raimondo, i cui caratteri sono tutti in rilievo. 

Eccone una parte:

Uomo mirabile, nato a tutto osare, Raimondo di Sangro, Capo di tutta la sua famiglia, Principe di San Severo, Duca di Torremaggiore […] illustre nelle scienze matematiche e filosofiche, insuperabile nell’indagare i reconditi misteri della natura, esimio e dotto nei trattati e nel comando della tattica militare terrestre e, per questo, molto apprezzato dal suo Re e da Federico di Prussica [… imitando l’innata pietà a lui pervenuta per l’ascendenza di Carlo Magno imperatore, restaurò a sue spese e con la sua saggezza questo tempio [...] AFFINCHÈ NESSUNA ETÀ LO DIMENTICHI. 
 
Il corpo del Principe, però, non è nel sarcofago: qualcuno, chissà quando e perché, lo ha trafugato. Nel maggio 1990 dei ladri trafugarono un dipinto ovale con l’effigie del principe, che era collocato tra due putti in gesso vicino all’altare. L’opera venne recuperata nel luglio 1991 e ci si accorse che qualcuno aveva tentato di “restaurarla” di nascosto: purtroppo per l’ignoto restauratore, l’esecutore del dipinto aveva usato dei colori talmente particolari (detti “oloidrici”), creati con una formula ideata dallo stesso Raimondo, da rendere inefficace qualsiasi tentativo. Oltre a queste bellezze dell’arte scultorea, la Cappella contiene altre due “meraviglie”, inquietanti ed affascinanti. Si tratta delle cosiddette “Macchine Anatomiche”.

Si tratta di due corpi umani, di un uomo ed una donna, totalmente scarnificati, nei quali è messo in evidenza l’intero sistema circolatorio costituito da arterie, vene e capillari. Sembrano la magica trasposizione di tavole anatomiche prelevate da un testo di medicina. Vediamole nel dettaglio.



Lo scheletro della donna ha il braccio destro alzato ed i bulbi oculari interi, quasi ancora lucenti, in un’espressione di vero terrore. Le ossa sono interamente rivestite dal fittissimo sistema arterioso e venoso che, metallizzandosi, ha preservato anche gli organi più importanti. Il cuore è intero; nella bocca si possono riconoscere persino i vasi sanguigni della lingua. Era incinta: nel ventre si può notare la placenta aperta dalla quale fuoriesce l’intestino ombelicale che andava a congiungersi con il feto, che è stato recentemente rubato. Così come quello della madre, anche il cranio di questo feto poteva aprirsi per vedere all’interno la complessa rete dei vasi sanguigni. Il corpo dell’uomo ha più o meno le stesse caratteristiche. Le braccia, però, in questo caso scendono lungo il tronco. Resta da capire come il Principe sia riuscito a realizzare due “oggetti” come questi, che, va specificato, non sono sculture. Leggendo la Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di San Severo, edita per la prima volta nel 1766, e quindi quasi certamente scritta dallo stesso Principe, si legge che nella Cappella “si veggono due Macchine Anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri d’un Maschio, e d’una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene, e tutte le arterie de’ Corpi umani, fatte per iniezione, che, per essere tutt’intieri, e, per la diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa”. Alla luce delle attuali conoscenze mediche, si potrebbe pensare che il diabolico Raimondo, sempre con l’assistenza del medico Giuseppe Salerno, abbia iniettato nelle vene delle due malcapitate cavie, probabilmente due suoi servi, una sostanza che, entrando in circolo, abbia progressivamente bloccato la rete e la circolazione sanguigna fino alla morte dei soggetti. A questo punto, la misteriosa sostanza avrebbe “metallizzato” vene e arterie preservandole dalla successiva decomposizione. Il Principe, poi, deve aver aspettato che pelle e carne si decomponessero completamente prima di ottenere quelle che lui, con tanta pomposità, chiamava le “macchine anatomiche”. E’ una spiegazione logica e, in effetti, l’unica possibile: perché il liquido potesse raggiungere tutti i vasi sanguigni, infatti, dalla grande vena aorta al piccolo capillare del piede, sarebbe stato necessario che il flusso di sangue fosse ancora attivo, all’interno dei corpi. Se questa è la spiegazione, possiamo allora spiegarci la strana posizione dei due corpi. Osservandoli con attenzione, si potrebbe pensare che entrambi siano stati legati mani e piedi ad una specie di tavolo operatorio e che solo la donna, prima di morire, sia riuscita a liberare il braccio destro che ha agitato, cercando scampo, fino a quando la sua circolazione sanguigna non si è bloccata. I dubbi, comunque, restano. Infatti, nel ‘700 la siringa ipodermica, necessaria per l’iniezione, non esisteva ancora, essendo stata inventata quasi un secolo dopo dal chirurgo Carlo Gabriele Pravaz (1791-1853) di Lione. Questo è proprio l’argomento usato dai “sostenitori” del Principe che, rifiutando il fatto che l’uomo e la donna possano essere stati sottoposti da vivi a quell’orribile esperimento dal loro “idolo”, sostengono, invece, che quegli scheletri siano soltanto povere ossa ricoperte da una rete artificiale di vasi sanguigni. Tuttavia, un esame compiuto negli anni Cinquanta del ‘900 ha rivelato “che l’intero sistema di vasi sanguigni, all’analisi, si è rivelato metallizzato, cioè impregnato e tenuto in sesto da metalli in esso depositati”. 

Questa la vita e l’opera dei Raimondo De Sangro, Principe di Sansevero .

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